venerdì 29 gennaio 2010

Black out



Il gatto nero sposta le pupille dal basso verso l'alto, lentamente, accompagnando il leggero movimento verticale della testa, come quella di un regista che mentalmente prende nota su come girare il prossimo piano - sequenza: l'asfalto che cede con lentezza il calore accumulato durante il giorno, grigio scuro, frammenti di vetro opaco sparsi tutt'intorno, tra i quali una blatta solitaria cammina verso il lontano tombino sotto il marciapiede; fogli di carta sottile, resti di qualche cosa che di certo ora non è più, usata, frammentata, veleggiano in tondo scalando vortici invisibili; cespugli, erba incolta ai margini della strada. Costellazioni di mozziconi di sigaretta. Il lungo, altissimo lampione di metallo arrugginito, che curva in cima e spara il suo fascio di luce verso terra, ronzando. Un impercettibile coro di ultrasuoni, il volo tremolante delle falene in strette spire, il volo veloce e silenzioso dei pipistrelli in larghe spire, sempre più strette, fino alla cattura delle bianche falene.
Il buio, oltre il lampione, il lontano orizzonte oscuro, punteggiato di lucine distanti, bianche e gialle, tremolanti per la foschia, lo smog e il calore risalente; appena percettibile, la sagoma delle montagne, nere nere, contro il cielo della sera inoltrata, sulla colonna sonora delle sigle dei telegiornali che viene dai palazzi, illuminati dai lampioni solo dal secondo piano in giù.
Poi il basso orizzonte sopra la sagoma delle montagne, di una tinta appena più chiara per l'inquinamento luminoso.
E sopra, sopra tutto questo, uno spettro, un fantasma terrificante, che senza emettere un solo suono e spostandosi a una velocità che può essere percepita solo fissandolo a lungo, risale lentamente il cielo sopra la smorta periferia urbana di una sera d'estate come tante.

Massimo -per gli amici Max- guarda la Luna piena che sorge, rossa, fluorescente, enorme.
Stravaccato sul sedile nella sua Golf GTD nuova fiammante, i finestrini e il tettuccio aperti, la radio accesa, guarda la Luna ma non la vede. Tambureggia sulla corona del volante con le dita seguendo il ritmo lento di una canzone anni '80 e aspetta:

Hope you find it in everything, everything that you see
Hope you find it in everything, everything that you see
Hope you find it, hope you find it
Hope you find me in you


Massimo -per gli amici Max- pensa alla ragazza, la misteriosa creatura mulatta dal corpo sinuoso e perfetto, che cammina danzando come un salice piangente al vento, la maliarda taciturna con gli occhi di un argento spettacolare, luminoso, trasparente, inquietante, le lunghe ciglia e i capelli corvini sciolti sulla nuca, vivi e vitali, a incorniciare le tonde gote e le labbra carnose, di rossetto scuro, e gli occhi da orientale, di un oriente lontano lontano, di un oriente mai visto da essere umano, come il suo profumo pungente, sottile ma penetrante...

Massimo pensa alla ragazza e si sfiora la patta dei pantaloni; era stato conquistato all'uscita dalla disco Licanthropya, fuori città e verso i colli, in una notte buia dopo aver danzato, bevuto, fumato, dopo aver gareggiato coi suoi amici a chi ne rimorchiava di più. Era stata, sotto quel profilo, una buona nottata: aveva percorso tre volte il corridoio verso le toilettes, in compagnia, aveva chiuso dietro di se la porta e aveva goduto di quei corpi al ritmo di un animale da monta, di quei corpi molli e ciondolanti, gli occhi semi chiusi, corpi che erano stati consenzienti all'alcool e agli acidi, prima ancora che al suo sesso. Era stato battuto dal suo migliore amico, tuttavia: quattro a tre.

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